Interviste & Articoli


Ruggero Raimondi: La carriera
in Helena Matheopoulos: Bravo
Milano, Garzanti, 1987, pp.264-283

Nato a Bologna nel 1942 da genitori entrambi molto appassionati di lirica nonché possessori di una notevole collezione di dischi, Raimondi cominciò a sette anni a prendere lezioni di piano, ma le odiava e ben presto le abbandonò.
Gli piaceva cantare, però, e imparava a memoria tutte le grandi romanze che ascoltava sui dischi dei suoi genitori. La voce gli si guastò presto per poi assestarsi nel suo attuale registro e venne notata per la prima volta su una spiaggia romana, dove il tredicenne Raimondi stava cantando a se stesso il "Credo" dell'Otello. Due signori romani amanti di musica si avvicinarono ai genitori, per consigliarli di far valutare la voce del figlio da un esperto. Due anni più tardi la nonna, che era dello stesso parere, gli combinò un'audizione con il direttore d'orchestra Francesco Molinari-Pradelli, il quale si disse pronto a scommettere che Raimondi avrebbe fatto una grande carriera.
Così, per istigazione della famiglia - e in particolare del padre, che vedeva la possibilità di appagare i suoi sogni irrealizzati attraverso il figlio - Raimondi abbandonò il progetto di studiare ragioneria e cominciò a prendere lezioni a Mantova, da Ettore Campogalliani, e a prepararsi per essere ammesso al Conservatorio di Milano.
Superò gli esami di ammissione ma, poiché aveva soltanto sedici anni, per il primo anno poté assistere soltanto come uditore. Questo comportava un viaggio quotidiano in treno da Bologna a Milano e ritorno, con levatacce alle cinque ogni mattina, perché i genitori lo ritenevano troppo giovane per vivere da solo nella grande città. Lui, e non c'è da stupirsene, di questa massacrante situazione ne aveva fin sopra i capelli, e alla fine di quell'anno convinse i suoi d'essere ormai abbastanza grande per vivere e studiare a Roma, dove passò i quattro anni successivi a studiare con Teresa Pediconi e Antonio Piervenanzi e a godersi la vita nella capitale italiana, "un luogo meraviglioso dove crescere e trascorrere gli anni della propria formazione, specie durante un periodo aureo come la prima parte degli anni sessanta".
Nel 1964, vinse il Concorso di Canto Adriano Belli, a Spoleto, cantando Colline ne La bohème, cosa che gli procurò l'immediato invito da parte dell'Opera di Roma a studiare Procida ne I vespri siciliani per fare da sostituto al famoso basso Nicola Rossi-Lemeni. Poiché quest'ultimo si ammalò prima dell'ultima rappresentazione, Raimondi ebbe la possibilità di fare il suo debutto professionale in questo importante ruolo. "In realtà stavo male anch'io", rammenta, "ma la mia ansia e il mio entusiasmo per l'occasione d'oro che mi si presentava erano tali che non dissi niente e cantai tutta la rappresentazione con la bronchite", ma per fortuna anche con molto successo e risultati al di là del previsto. Il padre di Raimondi, infatti, aveva invitato il marito del soprano Maria Chiara ad assistere alla rappresentazione, e quest'ultimo era rimasto talmente colpito dal potenziale del giovane da organizzargli un'audizione con l'intendente del Teatro La Fenice Mario Labroca, il quale doveva poi divenire il mentore di Raimondi nonché colui che lo avrebbe lanciato nella carriera con l'offrirgli li per lì un contratto per cinque anni.
Proprio a La Fenice, grazie all'incrollabile fede che Labroca aveva in lui, Raimondi cantò per la prima volta tutti i suoi ruoli più importanti come Mefistofele, Boris Godunov, Don Giovanni, il Conte Almaviva e Don Chisciotte.
Durante gli anni passati a La Fenice, Raimondi veniva preparato di tanto in tanto da Leone Magiera, il quale ricorda che "la sua voce c'era già, forte, sonora e risonante, e non avevo alcun bisogno di lavorare sulla tecnica. Quel che dovevo fare era di istillargli i rudimenti de'ìl'interpretazione, perché allora Ruggero usava cantare tutto molto forte. Dovevo perciò insegnargli dapprima la necessità e poi il modo di cantare a volte piano e pianissimo, e come colorare la voce a seconda del contenuto di ciascuna frase. E mi creda, è molto, molto difficile disciplinare una voce possente e imparare a 'rimpicciolirla' a volontà perché possa cantare la Serenata di Don Giovanni nel modo splendido in cui ora Ruggero la canta.
Sembrerà strano, ma la tecnica, per riuscirci, consiste nell'appoggiare e sostenere il fiato ancora di più, onde emettere un suono più ridotto ma sostenuto, perché perfino quando si canta piano un suono deve avere 'corpo', altrimenti non lo si sente.
Ruggero, che è quanto mai intelligente e sensibile, lo ha capito e a poco a poco è riuscito a fare della sua voce quello strumento raffinato e ricco di possibilità che è ora. Come essere umano è sempre stato speciale, interessato a tutto e sempre alla ricerca di nuove intuizioni, della verità che sta dietro le diverse opere. E' un grande ricercatore e ha un vivo temperamento artistico". Janine Reiss, che ha conosciuto Raimondi e ha collaborato con lui quand'egli era già un po' avanti nella carriera, dice che è "un uomo candido, quasi ingenuo e dei tutto trasparente, ed è questa sua autentica e profonda semplicità umana, più che l'altrettanto autentica raffinatezza musicale e culturale, quel ch'egli riversa nella parti che interpreta. Ecco perché le interpretazioni suonano così vere, ecco perché lui si trasforma, praticamente, nei personaggi che ritrae".
Ripensando a quei giorni, Raimondi dice che il motivo del suo accondiscendere al desiderio dei suoi ch'egli diventasse un cantante fu la speranza di riuscire, attraverso i vari ruoli, i costumi e la finzione scenica, a perdere la timidezza che lo anchilosava e a liberarsi dei suoi complessi. Ma tutto questo si verificò soltanto dopo il suo incontro, al Teatro La Fenice, con l'uomo che "ha cambiato la mia vita e mi ha insegnato a usare la mia ipersensibilità in modo creativo": Piero Faggioni.[...]
Fu quella produzione del Faust, nel 1965, a varare la carriera di Raimondi. Poco tempo dopo, venne invitato a cantare in una nuova produzione di Faust per la regia di Luca Ronconi, a Bologna, nel '67, e nella parte di protagonista di Don Giovanni a Ginevra, nel '68, in una produzione dello scomparso Herbert Graf. A questa rappresentazione assisteva Peter Diamand, allora Direttore del Festival di Edimburgo, che rimase talmente colpito da raccomandare Raimondi alla Glyndebourne Festival Opera, dove questi debuttò nello stesso ruolo nel 1969. Dice però Raimondi che, durante quelle rappresentazioni ginevrine, era ancora "talmente preso da Mefistofele" che Graf non riuscì del tutto a imporgli la sua concezione di Don Giovanni.
Mefistofele è una parte dalle possibilità espressive di incredibile interesse, e Raimondi, sebbene la sua interpretazione si basi tuttora sull'idea di Faggioni, di un personaggio "ginnasta" ispirato da Douglas Fairbanks, ripensandoci ha l'impressione che la sua interpretazione originale fosse stata fin troppo atletica. Il ruolo allora presentava anche problemi vocali, perché lui lo cantava "con una voce giovane e tutta la spavalderia della giovinezza, con enorme potenza e senza alcun calcolo consapevole.
Per esempio, nulla mi importava di trascurare la respirazione perché stavo saltando giù da un tavolo. Naturalmente, non avrei potuto continuare a cantare così, perché con la maturità certe risorse naturali diminuiscono, se proprio non spariscono dei tutto, e si comincia perciò a pensare ai particolari tecnici: cose come trovare la posizione adatta per cantare determinate note in modo consapevole".
Sotto il profilo vocale, il momento più critico è l'entrata in scena di Mefisto nel prologo, "Me voici", che contiene anche un Do centrale. E' anche la prima apparizione del personaggio e deve pertanto provocare un dato effetto e avere un certo peso vocale che nei primi tempi, Raimondi ne è convinto, non aveva. "Poi devi arrampicarti fino a un Fa sopra il rigo che non c'è nella partitura ma è stato interpolato dalla cosiddetta tradizione; e qui so come cavarmela, perché sono un basso-baritono, non un basso profondo, e la tessitura di questo ruolo mi è sempre andata a pennello. Qualche altra difficoltà vocale c'è, nella scena della Kermesse, dove all'improvviso ti tocca sprofondare fino al Fa sotto il rigo, e l'aria 'Le Veau d'or' contiene alcuni difficili trilli che si è sempre tentati a cantare 'aperti', invece che 'coperti' [vale a dire, bene!], ma il riuscire a farlo dipende dallo stato del respiro e dalle generali condizioni di voce di ciascuna serata. E, soprattutto in quest'aria, il mio addestramento con Piero si è rivelato prezioso: mi permette di sentirmi vocalmente sicuro mentre mi muovo per la scena da vero ginnasta provetto. Sì, perché 'Le Veau d'or' non puoi cantarlo standotene immobile! E' un'aria demoniaca in cui Mefisto si accinge a ipnotizzare e a mettere a nudo l'anima di tutti. E quindi, deve comportarsi come un mago e accerchiare la gente con gli sguardi e con la sua persona: tutte cose che richiedono un fiato lunghissimo e una resistenza fisica tremenda". Dopo la sua prima, intensa interpretazione fisica di Mefistofele al Teatro La Fenice, Raimondi ricantò il ruolo a Bologna, in una produzione molto discussa di Luca Ronconi che collocava l'azione nel diciannovesimo secolo e in cui Mefistofele veniva presentato come un cardinale piuttosto demoniaco con vasti interessi economici che comprendevano un bordello di gran classe con ballerine di can-can! Era una concezione che apriva la strada a possibilità anche maggiori di colore e raffinatezza vocale. "E qui cominciai a rendermi conto della vena ironica del personaggio di Mefisto, che ora diveniva più brusco, più cinico, critico e introspettivo. Pur conservando la sua grande mobilità e le sue qualità quasi da balletto, cominciava a servirsi di queste caratteristiche ultra fisiche e a divenire più dominante. Già perché, in sostanza, Mefisto è un essere che ha un profondo bisogno di sfoggiare il suo potere e dare dimostrazione di quello che sa fare, per divertimento suo e degli altri. Dapprima, procede a sbigottire Faust, nel Prologo, con tutta una serie di trucchi - evocando visioni di ricchezza, potere e gratificazione fisica - e poi fa lo stesso per la gente che affolla la taverna, nella Kermesse. Nel darlo, il piacere, quasi lo sperimenta egli stesso, ma in modo piuttosto critico sottolineandone i toni di fondo sensuali, ironici, perversi. In chiesa con Margherita è il male - forse il suo unico momento realmente diabolico - poi nella Serenata è ironico, assume l'atteggiamento di un giullare, e quasi assapora la brama che Faust ha di Margherita, perché va da sé che Faust e Mefisto sono i due aspetti di uno stesso personaggio, come Jekyll e Hyde". Raimondi fa notare che le difficoltà vocali e fisiche di questo ruolo richiedono una preparazione fisica considerevole, perché è molto, molto arduo, perfino per i cantanti esperti, conseguire l'indipendenza assoluta, importantissima per questo ruolo, della produzione vocale dai movimenti del corpo. "Faccio una gran quantità di esercizi di respirazione - respirando e trattenendo il fiato per cinque, dieci, quindici secondi e regolandolo ritmicamente - oltre che ginnastica pura e semplice e lunghe passeggiate, pur di mantenermi in forma, perché questa parte lo richiede. Lo stesso dicasi per Don Chisciotte, che per quanto possa sembrare paradossale richiede a sua volta un tremendo sforzo fisico, nonostante il fatto che il personaggio debba avere l'aspetto di un vecchio". Raimondi cantò per la prima volta la parte del protagonista in Don Chisciotte di Massenet al Teatro La Fenice, nella stagione '82-83, di nuovo in una produzione di Piero Faggioni, col quale si era un po' perso di vista dopo quella storica produzione di Boris Godunov che era stata seguita da una collaborazione meno felice in Le nozze di Figaro. La carriera di Raimondi, nel frattempo, aveva assunto risonanza internazionale, con una serie di acclamati debutti: La Scala, nel 1970, come Procida ne I vespri siciliani; il Metropolitan come Silva in Ernani e dieci anni più tardi, come Procida. (Il suo ritratto di questo personaggio è considerato un capolavoro. Dopo che Raimondi l'ebbe cantato al Metropolitan, nell'80, il critico di "Opéra International" scrisse: "Dire che Raimondi è stato il trionfo della produzione equivarrebbe a minimizzare le cose! Il suo ritorno al Met è stato salutato dopo l'aria 'O tu Palermo' con un'ovazione che rimarrà memorabile. Attore sensibile e raffinato, fa di Procida, il patriota fanatico, una magistrale composizione scenica e vocale"). Raimondi inoltre aveva cantato il Requiem di Verdi nella Cattedrale di San Paolo e all'Halbert Hall, a Londra: al Covent Garden, nel 1972, aveva impersonato Fiesco in Simon Boccanegra; all'Opéra di Parigi, nel '75, aveva ricantato Procida; nel '78 era stato Don Giovanni nel film di Losey; nell'80, aveva debuttato al Festival di Salisburgo, e aveva cantato il Re e in seguito Ramfis nell'Aida e di nuovo il Requiem di Verdi sotto la direzione di Karajan. A urtare Faggioni era stato il consenso di Raimondi a cantare Boris Godunov all'Opéra di Parigi, nel '79, sotto la bacchetta di Seiji Ozawa, in una produzione di cui in origine avrebbe dovuto fare lui la regia ma che, per divergenze di vedute sulla scelta del designer, era stata alla fine affidata a Joseph Losey.

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