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Ruggero Raimondi:
Boris
in Helena
Matheopoulos: Bravo
Milano, Garzanti, 1987, pp.264-283
Nonostante la complessità
e l'onere per il sistema nervoso dell'interprete, Don Giovanni non è il
ruolo più difficile del repertorio di Raimondi. "Il più arduo di tutti
è Boris Godunov, perché lì non puoi barare. A differenza di Giovanni,
che esiste come riflesso delle reazioni e dei desideri altrui, Boris dev'essere
costruito lentamente, passo passo e dall'interno ricavandolo dai tuoi
stessi sentimenti. Tuttavia il personaggio è così angosciato, è un concentrato
tale di emozione, che se ti abbandoni completamente a questo suo stato
d'animo e permetti a te stesso di piangere e singhiozzare con lui, rischi
che la gola ti si chiuda e che la voce ti si blocchi", spiega Raimondi,
che cantò per la prima volta Boris nel '72 al Teatro la Fenice, in una
produzione storica, messa in scena da Piero Faggioni, della versione originale
di Musorgskij, che in precedenza, in Italia, non era mai stata rappresentata.
"Devi sempre cercare di tenerti lievemente discosto dal personaggio, che
è davvero difficilissimo proprio perché certi momenti, come la scena dell'Orologio,
sono scritti in modo così potente e realistico che quasi ti senti soffocare.
E' praticamente impossibile non rimanere coinvolti... Io dormo sempre
malissimo, per esempio, dopo avere interpretato Boris". Raimondi precisa
che la chiave del personaggio Boris sta tutta nell'accordo di apertura
della scena dell'Incoronazione, che è segnato tenuto, perché questa terribile
nota di dubbio incapsula tutto quanto c'è nel personaggio Boris: l'ambizione,
la sete di potere, ora divenuta realtà, gli intrighi e la morte, o meglio
il suicidio, provocata dal rimorso. "Tutto questo è nella mente di Boris
nel momento in cui egli esce dalla cattedrale. Dopo tanti intrighi, la
sua ambizione di diventare Zar si è finalmente realizzata. Ma ecco che
nel momento stesso, bang! si insinua la nota del dubbio, un presentimento
o un avviso sul conto di quest'uomo che, alla fine, condannerà se stesso
a una morte lenta per il rimorso d'avere assassinato un bambino. Questo
dubbio, questo seme di quello che sarà, la tua voce deve suggerirlo per
un breve istante, prima che Boris si padroneggi e si rivolga al popolo".
Nel II Atto, Boris mostra dapprima il suo lato più caldo e più umano nella
scena con i figli, poi quello più forte e più minaccioso nella scena con
Sciuiski. Ma il resoconto che Sciuiski fa dell'assassino del precedente
Zarevic spinge la coscienza di Boris, già rosa dal rimorso, a una sorta
di frenesia - Boris istintivamente interpreta la carestia che incombe
e l'incendio di Mosca, come un castigo di Dio per il suo crimine - e,
in un'allucinazione, vede un bambino tutto insanguinato. "Quest'ossessione
gli pesa sempre più e lo porta quasi sull'orlo della follia. A poco a
poco, devi immedesimarti in questo suo stato mentale e accumulare dentro
di te questo carico di angoscia, affinché anche il pubblico possa avvertirlo.
Al tempo spesso, però, devi sforzarti di tenere questo tuo coinvolgimento
sotto controllo, così da non perdere il contatto con la realtà. Altrimenti,
sei finito, perché questa scena è difficilissima anche dal punto di vista
vocale: è ritmicamente imprecisa, perciò mentre attraversi tutte le angosce
penosissime che ho descritto devi continuare a contare, per poter rimanere
entro le battute stabilite". L'impegno tecnico più difficoltoso di questo
ruolo è la varietà di effetti che esso richiede: gemiti, esclamazioni
soffocate, sospiri e singhiozzi che ogni interprete deve inventare a seconda
delle proprie capacità. La tessitura in sé non è scomoda e il momento
più difficile, sotto quest'aspetto, è quel passaggio, nella morte di Boris,
che contiene un Mi al di sopra del rigo da cantare pianissimo. "E' un
momento tormentoso, vocalmente e sotto il profilo drammatico, perché Boris
sta morendo praticamente di crepacuore. Si odono i rintocchi di una campana
ed entra un corteo di monaci, secondo la tradizione, per vestirlo di un
saio e trasportarlo all'altare per la sua morte. In quel preciso momento
le parole cambiano ed egli rivede il bambino, poi, bang! arriva l'emorragia
cerebrale che lo uccide. Tutto questo è di un'intensità così tormentoso,
così sopraffacente, che alla fine tu stesso ti senti come morto, totalmente
spento". Piero Faggioni ricorda che, quando Raimondi cantò per la prima
volta questa scena, svenne e si dovette trasportarlo via a braccia. "Piangeva
lacrime vere, vivendo tutta la sofferenza di Boris, e dava talmente tanto
di se stesso da ridursi in uno stato di trance. In seguito, mi disse che
non poteva continuare a lavorare così, che doveva trovare la maniera di
proteggere la sua salute e il suo equilibrio fisico, perché a quella profondità
non era in grado di difendersi. Ammisi che aveva ragione. C'è un misterioso
equilibrio, a mezza via tra l'emozione genuina e il controllo tecnico
consapevole, e bisogna che ogni cantante lo scopra da sé". La capacità
di Raimondi di immergersi totalmente in questi ruoli rende tanto più stupefacenti
le testimonianze sue e d'altre persone che, all'inizio della sua carriera,
la sua abilità drammatica fosse del tutto inesistente. La sua totale impossibilità
di collegare e coordinare l'emissione di suono con qualsiasi tipo di movimento
del corpo era dovuta, spiega Faggioni, da un lato a ragioni psicologiche,
dall'altro al fatto di non avere avuto nessun addestramento drammatico,
avendo studiato, come tanti altri giovani cantanti, soltanto con maestri
di canto.
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