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Piero Faggioni
sull'interpretazione di Don Quichotte
Prefazione in Leone Magiera: Ruggero Raimondi, 1994, Milano,
Ricordi, pp.4-11.
Con il Don Quichotte dell'82 abbiamo
forse ottenuto un'interpretazione ancora più raffinata del Boris,
anche tenuto conto delle maggiori difficoltà sceniche. Quando
Ruggero me ne parlò la prima volta, a metà degli anni 70, rimasi stupito. Con le soddisfazioni che poteva togliersi
con Boris e Don Giovanni cosa lo attirava verso quest'opera
apparentemente tanto debole?
Poi, studiandola, mi sentii progressivamente posseduto dallo stesso piacere
di identificazione con l'idealismo folle del personaggio che sentivo in
Raimondi. Forse era lo stesso piacere che aveva ispirato prima di tutti
Cervantes, e da allora in poi tutti i seguaci di quell'immortale figura
compreso Massenet alla fine della sua vita, e Scialiapin stesso, la cui
ombra ancora una volta veniva a proteggere la nostra ricerca della verità
scenica? Forse tutti noi pensavamo senza dircelo, come Flaubert di Madame
Bovary "Don Quichotte c'est moi!".
Come aveva potuto Ruggero intuire che avrei trovato la chiave giusta per
il Don Quichotte? Da dove traeva questa consapevolezza e questa
fiducia se non da quella affinità elettiva che ci aveva
unito nelle nostre prime imprese e che allora mi fece intuire quel Mefistofele
che lui non sapeva ancora di poter fare? I risultati del Don Quichotte
sono storia recente. Ripreso trionfalmente a Napoli, Barcellona, Parigi,
Firenze, Montecarlo e Parma, è forse il nostro cavallo di battaglia,
lo spettacolo che più ci rappresenta perché più intessuto
dei sogni, delle speranze e degli ideali per cui ci siamo battuti.
Non per nulla la chiave di lettura mi è stata ispirata dalla memoria
di Jean Vilar, che agli ideali seppe tener fede fino alla fine e a cui
sono debitore d' avermi fatto capire come l'Opera, se correttamente realizzata,
sia la forma di teatro più completa e più universale che
esista. A patto di trovare interpreti come Raimondi, che abbiano l'umiltà
di porre se stessi al servizio dell'autore. E soprattutto che abbiano
un'anima e la voglia di ricercarne la "voce" più intima.
Con nessun altro interprete nel corso della mia intera vita professionale
sono arrivato ad avere la netta sensazione che il nostro mestiere di teatranti
può essere usato non solo come mezzo per una ricerca continua non
solo sul pensiero dell'autore e sull'anima dei personaggi, ma anche e
soprattutto - in modo più doloroso ma più gratificante -
sull'essenza della nostra natura di uomini.
Grazie Ruggero!
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