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Piero Faggioni
sulla collaborazione con Raimondi
Prefazione
in Leone Magiera: Ruggero Raimondi, 1994, Milano, Ricordi, pp.4-11.
La collaborazione con Raimondi inizia alla Fenice di Venezia con parti
minori nella Jerusalem e nel Falstaff - seguite a breve
distanza dal primo grande ruolo da protagonista: il Mefistofele nel Faust.
In pochi mesi di lavoro intensissimo, tra il maggio del '65 e il febbraio
del '66, l'intesa era nata. Ho sempre pensato che la nostra giovinezza
e l'essere quasi coetanei - Ruggero aveva 24 anni e io 28 - abbiano giocato
un ruolo importante. Non ci fu mai distanza o rivalità fra noi,
ma complicità fraterna, in una corsa gioiosa verso la scoperta
delle nostre possibilità.
Senza quell'intesa giovanile non avremmo mai potuto ottenere, nella maturità,
i risultati raggiunti con opere come Boris Godunov e Don Quichotte.
A quell'epoca Raimondi in scena impressionava per il contrasto tra la
padronanza degli eccezionali mezzi vocali e lo scarso controllo di quelli
fisici. Infatti, sebbene la buona preparazione atletica e i diversi sport
praticati con una certa disinvoltura, in scena, invece, la sua grande
timidezza prendeva il sopravvento, irrigidendo il suo corpo in modo anomalo.
Insomma, una voce eccezionale, ma prigioniera di un corpo ostile.
A volte, nei
passaggi musicali più difficili, questa ostilità impediva
a Ruggero perfino dei gesti elementari, come ad esempio quello di sguainare
una spada esattamente a tempo. Ricordo che, durante le prove di Jerusalem
mi avvicinai a lui dicendogli: "Devo capire cosa ti succede. metti
la mano sull'impugnatura e pensa solo a cantare; estrarrò io la
spada per te." Così dicendo, appoggiai la mia mano sulla sua
che stringeva l'elsa e attesi il momento esatto. Niente da fare; impossibile
estrarla, anche per me! mentre cantava quella nota impegnativa, il braccio
di Ruggero aveva la rigidità di quello del Convitato di pietra
in visita da Don Giovanni!
Lo guardai estrefatto.
Capii allora che nello sforzo necessario a contrarre il diaframma per
sostenere la "colonna sonora" - e forse per vincere la timidezza
- gran parte delle sue energie andava dispersa in uno sforzo collaterale
e improduttivo che lo irrigidiva.
Era un problema di insufficiente decontrazione analogo a quello che avevo
constatato in altri giovani debuttanti, anche se in Raimondi impressionava
maggiormente per il contrasto con le sue eccezionali qualità. Ma
il problema andava superato rapidamente. I guasti provocati da anni di
lezioni accanto al pianoforte senza curare altro che la voce, possono
diventare irreversibili. E' come se in un'auto potente venisse curata
solo la manutenzione del propulsore...e non quella della frizione. Al
momento di partire, il motore "s'imballa" e la macchina non
si muove!
Fra noi era nata intanto un'amicizia che ci consentiva di affrontare i
problemi più seri senza inibizione. i primi risultati si vedono
nel Falstaff, dove Ruggero nel ruolo di Pistola compì tali
progressi scenici da convincere il Maestro Labroca a farmi una proposta
allettante: "Questo ragazzo potrebbe diventare il nuovo primo basso
italiano, se non fosse così limitato scenicamente. Se te la sentissi
di insegnargli il ruolo, gli affiderei Mefistofele; se no è meglio
aspettare perché rischieremmo di bruciarlo".
Risposi di sì con entusiasmo, purché organizzasse per Raimondi
un mese di prove a casa mia, a Roma, lontani dalla Fenice e da occhi indiscreti.
Avevo capito che parte dei suoi complessi scenici veniva dall'imbarazzo
di dover mostrare davanti ai colleghi più esperti le difficoltà
fisiche per apprendere un nuovo ruolo. Era indispensabile
che arrivasse in teatro già pronto e sicuro di sé.
Cominciammo le prove a casa mia e, sulla base del "metodo
mimico" insegnatomi da Orazio Costa all'Accademia d'Arte Drammatica
di Roma, m'inventai un metodo didattico che avrei poi applicato con successo
a parecchi giovani cantanti.
La prima fase mirava a separare in Raimondi il problema fisico
da quello vocale. Decisi perciò di "montargli" tutto
il ruolo di Mefistofele senza che ne cantasse una nota. Utilizzando per
le nostre lezioni le voci di grandi interpreti come Christoff o Ghiaurov,
gli feci memorizzare per ogni scena una serie di movimenti a tempo di
musica, una sorta di rappresentazione in cui lui doveva agire più
da mimo che da cantante, come una star del cinema muto invitata a interpretare
Mefistofele con particolare vigore atletico, ma... in silenzio (il nostro
"divo" era Douglas Fairbanks!)
Ricordo che, per rompere il ghiaccio, sapendolo un buon sciatore, chiesi
di prendere l'aria impegnativa di "Le veau d'or" e cominciare
a muoversi, con me, come se fossimo stati due amici un po' su di giri
che sciano fischiettando quelle note e facendo dei "kristiania"
a tempo. Il "kristiania" è una sequenza di movimenti
abbastanza complessa che richiede di flettere ritmicamente le ginocchia,
ruotandole alternativamente a destra e a sinistra e spostando a ogni flessione
il peso del corpo da un piede all'altro.
L'idea finale di regia voleva impostare la scena come un frenetico balletto
di Mefistofele sui tavoli della Kermesse; ma il proposito immediato era
quello di distrarre Raimondi dalle cause della sua rigidità, facendolo
lavorare in piena decontrazione fisica con il solo problema di respirare
con la frase musicale. Non ci fermammo allo sci: ogni idea era buona
se poteva provocare lo spirito agonistico e il senso ludico di Raimondi,
entrambi estremamente vivi.
Solo quando lo vidi sicuro della sequenza dei movimenti diede inizio alla
seconda fase, in cui Raimondi doveva affrontare l'ipotetica discesa
non più fischiando, ma canticchiando le parole del testo, anche
se con un filo di voce. La parola cantata doveva essere prima "assaporata",
poi "aggredita" con nuova consapevolezza, grazie alla libertà
fisica conquistata; di riflesso, si poteva cominciare a sperimentare nuovi
movimenti, ispirati non più solo dal ritmo della musica, ma dal
senso delle parole pronunciate.
L'espressione stupita e incredula con cui ogni volta Raimondi ascoltava
le mie richieste - uno sguardo che spesso pareva dire "Ches chi l'è
matt!" - si accompagnava per fortuna. alla sua pazienza nel cercare
di soddisfarle.
Solo quando tutti gli elementi - gesto, respiro e colore cominciarono
a fondersi spontaneamente, si passò alla terza fase, in
cui doveva cercare di cantare sui serio, prima a mezza voce e poi sempre
più "in voce" fino al fortissimo. Fu allora che si verificarono
il piccolo miracolo e la grande scoperta che ci hanno profondamente legati.
Il piccolo miracolo si ebbe quando la voce non solo uscì con la
grandezza di prima - non disturbata da tutto quel dinamismo - ma più
bella, più libera e con molti colori, come una rapida, che precipita
a valle, rallenta, si ferma, s'inpenna, riposa e riparte, uguale a se
stessa e sempre diversa. E il corpo, non più ingombrante e ostile
alla voce ma suo fedele servitore, la sublimava a strumento ideale
d'una volontà d'esprimere presente anche nei momenti di silenzio,
quando il cantante può riposare, ma il personaggio vive e ascolta.
Era l'inizio della differenza tra "cantare delle note" e "diventare
un personaggio che si esprime in musica".
Vidi per la prima volta Raimondi abbandonarsi con stupore crescente alla
gioia liberatoria di usare tutto il corpo ai limiti del virtuosismo atletico,
come un "grande strumento" espressivo che arricchiva il suo
canto amplificandone il significato.
Per qualche istante seguitò a cantare, dimentico di me e delle
paure, teso dalla scoperta del suo nuovo Io, così libero e fiero,
poi tacque di colpo, come se avesse visto e sentito qualcosa di
sé che neppure sperava, e mi fissò in silenzio: i suoi grandi
occhi erano lucidi di commozione per lo stupore, la gioia e la
gratitudine. Non ci furono molte parole. Tutti e due capimmo che quell'esperienza
avrebbe unito - nel bene e nel male le nostre vite artistiche finché
esse avessero respirato. E la gratitudine era reciproca. Se Raimondi aveva
capito grazie a me quello che avrebbe potuto "dare" un giorno
come interprete scenico, io avevo appreso da lui quello che avrei potuto
fare come regista.
La grande scoperta fu che, come nella prosa, anche nella lirica
i colori che rendono viva e completa un'interpretazione non potranno
mai nascere dal solo studio musicale elaborato "a tavolino"
o accanto al pianoforte, ma dall'interiorizzazione dei sentimenti dell'autore
innervati nel corpo fino a creare una vera urgenza espressiva che
porta a estrinsecarli con una completa e libera partecipazione fisica.
Solo allora la frase cantata non sarà frutto di una ripetizione
imitativa ma esplosione dell'anima attraverso il
canto; solo allora si potrà parlare di vera interpretazione,
che non sarà più frutto del solo mezzo vocale, ma dell'intero
essere umano.
Ben al di là di quanto si possa credere, infatti, questo processo
mimico ha un duplice effetto: da una parte libera il corpo da una
spiacevole sensazione dì "non far parte della
voce", portando invece ogni sua parte a essere un "terminale
musicale" (esattamente come accade in ogni grande direttore d'orchesta);
dall'altra modifica l'utilizzazione dei centri di risonanza, conferendo
alla voce i mille colori che fanno d'ogni vero interprete un fenomeno
unico. Solo la ricerca del personaggio attraverso un intenso lavoro scenico
porta alla conquista della sua vera essenza.
Pochi giorni dopo iniziai le prove alla Fenice con il coro. Nel vedermi
che impostavo la scena della Kermesse saltando come Mefistofele da un
tavolo all'altro, un anziano corista mi chiese: "Ciò, ma chi
x'è che cantarà Mefistofele con tuti 'sti salti?".
Quando dissi "Raimondi" scoppiò a ridere incredulo; ma
quando lui arrivò e iniziò le prove di scena cantando l'aria
subito in voce e recitando la parte come un attore di prosa, quell'incredulità
si trasformò nell'applauso più forte che abbia mai sentito
tributare da un coro a un interprete. Nei suoi primi cinque minuti in
scena Raimondi aveva vinto la sua battaglia con la timidezza, mostrando
quel carisma da grande interprete che la critica gli avrebbe riconosciuto
alla prima. Fu l'inizio della sua carriera internazionale.
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