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       Ruggero & Don Giovanni 
        di Fabrizio Festa 
        Lyrica, n.18 anno 2, giugno 1995 
       
	  
        Interprete verdiano di prim'ordine, Ruggero Raimondi ha sempre 
          prestato molta attenzione al suo essere attore oltre che cantante. Ne 
          sono viva testimonianza i personaggi da lui creati: da Giovanni da Procida 
          a Boris, da Don Giovanni a Don Quichotte. 
           
          "Cantare ed attuare, questo oggi è quello che cerco di 
          fare ogniqualvolta vado in scena." 
          Per Ruggero Raimondi è più che una convinzione sostenuta 
          ad uso e consumo dell'intervistatore di turno. La sua carriera, nella 
          quale spiccano peraltro alcuni incontri chiave, e tutti con registi 
          di notevole caratura, sembra essersi dipanata proprio nel tentativo 
          di ottenere la sintesi perfetta tra l'attore e il cantante. A dimostrarlo 
          oggi ecco quei personaggi che, una volta interpretati da Raimondi, sono 
          in certa maniera divenuti archetipi, modelli, punti di riferimento obbligati 
          per quanti poi hanno dovuto nuovamente affrontarli. Basti ricordare 
          qui Don Giovanni. Il film di Losey l'ha immortalato. "Eppure 
          è errore imitarlo." chiarisce lo stesso Raimondi, "sebbene 
          è evidente che quel Don Giovanni sia divenuto una maschera. Del 
          resto - chiosa, rendendosi conto di quanto importante sia stato quel 
          film anche per il mondo dell'opera - l'incontro tra Mozart e Palladio, 
          quell'invenzione di Losey è finita per essere anch'essa un luogo 
          comune delle riprese successive di quell'opera mozartiana, dal quale 
          si fa fatica a liberarsi. Chissà, forse qualcuno prima o poi 
          riuscità ad inventare qualcosa di diverso." 
          Dunque, la centralità dell'attore ed insieme quella del cantante, 
          in un binomio che, come scrive del resto Leone Magiera nel suo saggio 
          su Raimondi pubblicato da Ricordi, difficilmente oggi riesce a descrivere 
          un artista di questa levatura. Specifica bivalenza peraltro che segna 
          tutte le tappe della sua carriera. Come nel caso di Giovanni da Procida 
          nei Vespri siciliani di Verdi.  
          "Per me si trattò allora" - ma il cantante bolognese 
          è ancora oggi convinto di questa sua lettura - "di dar 
          vita ad un personaggio scatenato. Quasi un pazzo furioso, un esaltato, 
          tutto preso dal suo amor di patria. Certo, la mia interpretazione teneva 
          conto del mio presente. Tempi diversi i nostri rispetto a quelli in 
          cui avevano visto la luce i Vespri siciliani. Diunque, Giovanni 
          da Procida mi sembrò giusto interpretarlo, per così dire, 
          sopra le righe. Il suo patriottismo - evidentemente in origine risorgimentale 
          e sostanzialmente positivo - si era trasformato in fanatismo. Così 
          leggevo gli incitamenti alla rivolta, al combattimento. Il tutto comunque 
          sempre poggiato su quella spiegata vocalità verdiana, che poi 
          quasi esplode in "O patria adorata". D'altro canto, i ruoli 
          di Verdi non sono certo fatti per star fermi in palcoscenico." 
           Ecco, questo crediamo sia il punto. E' pur vero che adesso è 
          sempre più raro veder il tenore, larghe le gambe, ben saldi i 
          piedi, i pugni chiusi che premono virili le anche, dar la stura a questa 
          o quell'aria, immemore di essere in un teatro. Resta però la 
          difficoltà di praticare quel precetto - "cantare ed attuare" 
          - divenuto nel tempo il vero nodo centrale dell'interpretazione moderna 
          nel teatro lirico. E Verdi sipresta a chi sa recitare. 
          "I suoi sono ruoli altamente drammatici, specie per il basso. 
          Siamo spesso di fronte ad eroi, o a personaggi, come Filippo II, che 
          il dramma vivono con un'intensità speciale. Un'intensità 
          che si realizza ad un tempo nella parola, nel libretto, e nel canto, 
          in una vocalità di grande bellezza e efficacissimo pathos. Inoltre, 
          la vocalità verdiana ha una sua propria difficoltà. Per 
          Verdi il basso è anche baritono, in certo qual modo. L'estensione 
          delle parti raggiunge i due vertici estremi, una caratteristica questa 
          che ulteriormente determina le peculiarità drammatiche dei personaggi 
          stessi."  
          E Raimondi quei personaggi, le creazioni del bussetano, con la sola 
          eccezione delle prime opere giovanili li ha cantati tutti, compreso 
          Falstaff, di cui ricorda l'edizione ginevrina con la regia di Proietti. 
          Forse, li ha cantati meno proprio in Italia. E' lui stesso a ricordarci 
          che sotto il patrio cielo canta con regolarità "da meno 
          di dieci anni". Da quando cioè lo chiamò Claudio 
          Abbado alla Scala, e da quando Carlo Fontana, ancora sovrintendente 
          all'epoca dell'Ente lirico bolognese, cominciò ad invitarlo frequentemente. 
          Prima la sua carriera si svolgeva, e per la verità tuttora è 
          così, soprattutto di là dalle Alpi. Per caso e nulla più. 
          Meglio dirlo però, a scanso di possibili equivoci, e inutili 
          successive polemiche.In Italia, comunque, Raimondi ha vissuto probabilmente 
          uno dei momenti centrali della sua maturazione d'artista: l'incontro 
          con il regista Piero Faggioni. 
          "Un incontro importante per entrambi" puntualizza il 
          cantante, un incontro che ci riconduce nuovamente alla questione attoriale, 
          a quell'approfondimento del recitare che Raimondi ha potuto sperimentare 
          in teatro e nel cinema. Due i momenti principali: la realizzazione di 
          Boris Godunov di Musorgskij e di Don Quichotte di Massenet. 
          Quest'ultimo caso certo il più interessante, vista pure la singolarità 
          del titolo. In certo modo, infatti, ci pare che Don Quichotte si contrapponga 
          a Giovanni da Procida, estremi di una parabola erioca e romantica, che 
          dal fuoco del risorgimento finisce per trasformarsi nelle luci soffuse 
          e suggestive, uno dei punti di forza della messa in scena dell'opera 
          di Massenet realizzata da Faggioni, e in quella figura di cavaliere 
          infine morente sconfitto, pur convinto del proprio ideale. 
          "Si è trattato quasi di un miracolo, di quelli che qualche 
          volta accadono in teatro. Lo spettacolo, d'altronde, nasce con un intento 
          chiaramente definito. Per Faggioni e per me si trattava di dar vita 
          al desiderio di poter fare l'arte senza doversi immischiare in tutto 
          quanto di solito si finisce per fare quel medesimo scopo. Da parte mia, 
          volevo soltanto cantare e interpretare, cioè ottenere un risultato 
          puramente artistico, senza altre mediazioni." Da qui una doglianza. 
          "Ormai far questo è divenuto sempre più difficile. 
          Molti teatri sono entrati in quella routine, che il solo modificarla 
          scatenerebbe la reazione di questo e di quello. Invece, per noi Don 
          Quichotte era il teatro e basta: la sua vita viveva per il teatro." 
          Con una conclusione peraltro vagamente positiva "Sancho 
          in un certo senso potrebbe esser visto come un discepolo: colui che 
          alla fine comprende e poi, chissà, seguirà le orme del 
          maestro".Una conclusione che la realtà odierna sembra, 
          però, contraddire, e Raimondi par proprio non aver dubbi a questo 
          proposito: "Quel tipo di teatro ormai non si fa quasi più. 
          I tempi di produzione oggi son fin troppo ridotti. E chi avrebbe, del 
          resto, la possibilità di far provare un'opera un mese. Qualche 
          volta accade in Germania, grazie alla loro organizzazione dello spettcolo. 
          Ma altrove è sempre più improbabile." 
          Il mondo del teatro lirico, dunque, è davvero cambiato. "Oggi 
          è sempre più difficile trovare chi sappia dirigere adeguatamente 
          un teatro. Ad esempio, non sempre con tutti i registi con cui ho lavorato 
          ho avuto rapporti tanto felici. Anzi, qualcuno si è concluso 
          con un acceso litigio. Ma la colpa non era né loro, né 
          mia. Loro erano convinti di quel che facevano ed io semplicemente non 
          appartenevo al loro mondo. La responsabilità era di chi ci aveva 
          voluti assieme. Perlappunto si fanno sempre più rari direttori 
          artistici e sovrintendenti capaci.Oggi, sovente ho l'impressione di 
          far parte del terminale di un computer. Qualcuno digita un titolo, poi 
          sceglie i cantanti, e non il contrario, ed il tutto finisce lì." 
           
         
       
      
       
       
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