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Piero Faggioni 
        sull'interpretazione di Boris 
   Prefazione 
        in Leone Magiera: Ruggero Raimondi, 1994, Milano, Ricordi, pp.4-11. 
        
       
	  Quanto più 
        con il nostro maturare s'acuivano i contrasti tra i sogni giovanili e 
        la realtà della vita, tanto più la reciproca conoscenza 
        dei leopardiani "inganni" avrebbe contribuito in misura incalcolabile 
        a un interscambio creativo e a un lavoro di approfondimento sui personaggi 
        affrontati; soprattutto Boris Godunov 
        del '72 e Don Quichotte dell'82. 
          Il rimorso del primo e la purezza al del secondo, le insicurezze dell'uno 
          al colmo del potere assoluto e le assolute certezze dell'altro nella 
          sua estrema povertà; la solitudine d'ambedue nell'essere così 
          diversi dall'umanità che li circonda eppure, in modo opposto, 
          ugualmente vivi della sola forza dello spirito; capaci fino all'ultimo 
          di infinita tenerezza per coloro che. amano e pronti a morire in modo 
          sublime, cercando il dialogo con l'eternità: sono temi che hanno 
          "abitato" i nostri incontri degli ultimi vent'anni, senza 
          che mai ce ne annoiassimo; con un cantante di cui non avessi conosciuto 
          la sensibilità e la cultura non avrei potuto nemmeno affrontarli. 
          L'ombra lunga di Scialiapin che aveva portato alla gloria i due personaggi 
          aleggiava adesso su di noi.  
        Sei anni dopo il Faust, ci saremmo ritrovati a New York per cominciare 
        a studiare il Boris. Ruggero cantava con successo al Metropolitan, 
        io ero di ritorno dalle mie prime regie in Giappone e a San Francisco. 
        L'offerta del Boris veniva dalla Fenice e Ruggero aveva chiesto 
        al maestro Siciliani che la regia fosse affidata a me e 
        non a Luchino Visconti come annunciato. Sapeva che mi sarei preso cura 
        di lui più che di tutto il resto dello spettacolo. 
        I lunghi viaggi in Russia, la scoperta delle parti inedite di Mussorgsky, 
        la comune passione per i film di Ejzenstejn e la traduzione con Semkow, 
        illuminarono quel Boris che riempì un anno della nostra 
        vita. Più di metà del nostro lavoro si svolse parlandone 
        in ristorante o per strada, di giorno e di notte, dalle strade di New 
        York alle calli di Venezia. Non avevamo bisogno di provare in teatro, 
        ma di chiarirci i sentimenti da esprimere nelle diverse scene. Il 
        corpo non era più un problema; era l'anima che cercavamo: 
        quello di Puskin, di Karamzin, di Mussorgsky: quella della Russia. Forse 
        la nostra. 
        Il Boris, salutato fin dall'inizio da uno straordinario successo 
        di critica e di pubblico, fu l'opera che rivelò a tutti - e a me 
        per primo - le nuove dimensioni interiori di Raimondi e l'immenso potenziale 
        della sua dote interpretativa. La sensibilità, la vulnerabilità, 
        l'insicurezza, la disponibilità a scavare ogni dettaglio con pazienza 
        e umiltà, la grande concentrazione interiore e il senso 
        di relazione con i colleghi in palcoscenico, il rispetto e la tolleranza 
        verso tutti i collaboratori anche nei momenti più tesi avrebbero 
        fatto di Raimondi da quel lontano 1972 il perno ideale intorno al quale 
        far ruotare tutti gli elementi della macchina teatrale che di volta in 
        volta avrei costruito su di lui, sicuro di non essere tradito. 
       
       
       
      
      
       
       
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